Comunicacións

 

Mércores, día 4 de Abril

 

Irene ROMO PODERÓS (USC)

Léxico satírico y emotivo en François Villon

Durante el siglo XII nace en la zona de Occitania, al sur de Francia, un tipo de composiciones líricas que generaron un estilo de hacer poesía que marcó las primeras formas de lírica culta en lengua romance, influyendo profundamente en las demás regiones románicas con su expansión. Al amparo del interés cortesano de este ámbito geográfico, surgieron, sobre todo, composiciones amorosas en las que la dama es alabada como si fuera una divinidad por un amante que se convierte en su vasallo. Las composiciones de François Villon (s. XV) son diferentes en muchos aspectos de aquellas compuestas tres siglos antes por estos primeros trovadores. El nombrado en diversos estudios como el “último trovador” rompe los moldes de la forma de trovar cortés canónica que ya se consideraban encorsetados o que se estaban abandonando, siendo un innovador en formas de expresión y léxico con respecto a la lengua y los modos corteses anteriores. En el presente trabajo se seleccionan tres composiciones incluidas en su obra Testamento; la Balada a su Dama para Robert d’Estouteville, el Lay o rondel de la muerte y la Balada final. A través de su análisis tratará de estudiarse el contraste existente en la poesía villoniana entre lirismo y sátira, parodia de lo cortés y conocimiento de sus modelos, así como la innovación poética basada en lo anterior que caracteriza su obra. Concretamente, el análisis de las composiciones se basará en una reflexión sobre el léxico villoniano, que muestra la permanencia del amor cortés en su obra, así como su parodia y superación del mismo, tratando de ahondar en el contraste entre lírica y sátira del poeta, así como en los rasgos esenciales de su lírica. De esta forma, se profundizará en el carácter “prerrenacentista” de la polifacética obra de uno de los mejores poetas franceses de todos los tiempos.

 

Silvia ROZZA (Università degli Studi di Siena)

Il sistema dei generi lirici nella letteratura romanza medievale

All’interno del vasto campo di studi dedicati al Medioevo, il mio “cammino” di filologa romanza cerca di ripercorrere le tappe dell’evoluzione che ha portato a parlare, in relazione alla lirica romanza medievale, di un “sistema dei generi lirici”. Il progetto di ricerca, a cui lavoro da poco più di un anno, parte infatti dalle classificazioni elaborate dagli studiosi moderni e cerca di stabilire quanto queste corrispondano effettivamente a quella che doveva essere la percezione delle distinctiones tra i diversi generi nei secoli della produzione e della trasmissione manoscritta della lirica trobadorica. Non si vuole negare l’utilità di queste consolidate categorie interpretative, ma cercare di porle nella giusta prospettiva e, dove possibile, di fornirle di basi metodologiche più solide. I campi di indagine sono molteplici e articolati e la mole dei dati da raccogliere lungo il cammino è considerevole, ma fortunatamente oggi ci possiamo valere dell’ausilio delle nuove tecnologie, che hanno reso possibile la digitalizzazione e la consultazione di molti manoscritti e la creazione di importanti repertori on-line. Anche grazie a questi strumenti lo studio cerca di analizzare le diverse componenti testuali che possano fornire, più o meno direttamente, informazioni utili alla nostra indagine: le autodefinizioni e le riflessioni metapoetiche interne alle poesie, che sono di fatto l’unica spia di quella che doveva essere la coscienza distintiva degli autori rispetto ai vari generi; i paratesti (categoria in cui faccio rientrare tanto le rubriche, quanto le prose biograficoesegetiche delle vidas e delle razos), che, nonostante la loro apparente natura “accessoria”, sono la cartina di tornasole di come le liriche venissero percepite e recepite da particolari categorie di fruitori; le definizioni fornite dai trattati di poetica medievali, che presentano una prima riflessione critica complessiva su quello che, da quel momento, comincia davvero a delinearsi come un sistema organizzato di generi sempre più cristallizzati. Ma il vero passo in avanti è costituito dallo studio della distribuzione dei generi all’interno dei vari canzonieri, aspetto che non è ancora stato pienamente esplorato dalla critica. Sappiamo che quello per generi è solo uno dei criteri di organizzazione interna delle raccolte e trova applicazione in misura diversa all’interno delle differenti tradizioni liriche, ma è sicuramente sintomatico della percezione dei generi da parte degli allestitori dei codici. Nessuno di questi aspetti è trascurabile se si vuole fornire un’affidabile ricostruzione del quadro complessivo e una corretta interpretazione di una delle più raffinate produzioni letterarie del Medioevo; l’ambizione sarebbe infatti quella di fornire una panoramica ampia del fenomeno, che consenta una prospettiva comparatistica tra le diverse esperienze della lirica romanza medievale, con particolare attenzione a quella provenzale, antico francese e galego-portoghese.

 

Fabio BARBERINI (Université de Toulouse 2 – CNRS)

«… e na cobra segonda o poden de entender» (Pero da Ponte, B1655/V1189)

Sebbene più volte edito, l’enigmatico pranto escarninho di Pero da Ponte, Mort’é Don Martin Marcos (B1655/V1189), continua a porre un certo numero di problemi ecdotici e interpretativi. Il testo è tràdito nei due apografi colocciani con una struttura versale (commistione irrazionale di versi brevi e versi lunghi) e strofica (due cobras di estensione diseguale) molto problematica. Le soluzioni proposte dagli editori – tre strofe di otto versi brevi in Braga (1878); una sola strofe di 13 versi lunghi in Lapa (1965), che per altro riteneva il testo pervenuto incompleto; tre strofe di quattro versi lunghi in Panunzio (1967), anch’egli dubbioso della completezza del testo, e Juárez Blanquer (1988) – si rivelano insoddisfacenti e, ad un esame accurato del testo, sono da respingere. Nessun editore tiene conto della rubrica esplicativa (razo) che accompagna la cantiga nel Colocci-Brancuti e che informa che il vero bersaglio della satira di Pero da Ponte – non (vero o fittizio che sia) il Don Martin Marcos menzionato nell’incipit, bensì l’Infante Don Manuel, fratello minore di Alfonso X – si palesa nella «cobra segonda», assente però nella ricostruzione monostica di Lapa e corrispondente alla terza strofe nelle letture di Braga, Panunzio e Juárez Blanquer. Gli editori, inoltre, non si interrogano (e quindi non offrono spiegazioni) né sull’iniziale della seconda cobra in BV (indubbiamente mal collocata), né in generale sulle ragioni che hanno determinato, nei codici, il rimaneggiamento della struttura stichica. Sviluppando un’ipotesi di Elsa Gonçalves (1997), suggerita vent’anni fa in una nota che non ha però ricevuto l’attenzione che avrebbe meritato, credo di poter dimostrare, con un esame incrociato del testo, della razo, e delle abitudini dei copisti colocciani (terreno che, tuttavia, resta ampiamente da esplorare), che il pranto di Pero da Ponte non solo ci è pervenuto integro, ma si articola in due cobras di sei versi lunghi più una fiinda d’un solo verso.

 

Tania VÁZQUEZ GARCÍA (USC – CRPIH)

Unha aproximación semántica aos termos ‘soldada’ e ‘soldadeira’

As soldadeiras son un dos axentes culturais máis controvertidos relacionados coa performance dos textos líricos galego-portugueses que espertou o interese dos investigadores en virtude das sátiras que recibiron nas cantigas de escarnio. O nome soldadeira procede etimoloxicamente do termo soldada, que denominaba o pagamento que percibían polo seu labor, podendo ser aquel unha retribución económica ou máis posiblemente elementos materiais como alimentos, panos e roupa. Unha soldadeira sería entón, rigorosamente, unha muller que traballaba a cambio dunha soldada. Non obstante, semella que a moral misóxina do momento confundiu as figuras que vendían a súa arte con aquelas que vendían o seu corpo, quizais pola condición de vida irregular que levaban en ambos os dous casos, de aí que se ridiculicen nas cantigas de escarnio e se destaquen as súas calidades negativas. Tomando como referencia os estudos realizados pola profesora Graça Videira Lopes (1998: 239) considerouse que o número de cantigas do corpus lírico profano galego-portugués nas que se fai mención ás soldadeiras ascende a corenta e tres. A autora advirte que existe unha descriptio compartida por todas as soldadeiras que se caracteriza pola súa luxuria, a insaciabilidade e a promiscuidade, de modo que fai extensible o vocábulo soldadeira a aquelas figuras vilipendiadas por estes vicios. Con todo, na nosa proposta coidamos máis rigoroso restrinxir o corpus exclusivamente a aquelas composicións nas que as protagonistas son denominadas explicitamente soldadeiras polos seus autores. Ao contrario, estariamos dando cabida a unha amplitude semántica do termo que, se ben puido experimentala, tal e como explicaremos, nos conduciría a xeneralizacións tópicas que non necesariamente están relacionadas coas soldadeiras, senón que son o resultado dun discurso de crítica e insulto contra as mulleres condicionado polos prexuízos misóxinos da Idade Media. Coa finalidade de tratar de coñecer mellor o emprego dos termos soldada e soldadeira na Idade Media, realizaremos unha análise comparativa da semántica que adquiren en distintas obras da literatura románica medieval de xéneros e áreas diversas. Desta forma, poderemos concluír se estas figuras son merecedoras das sátiras que recibiron por parte dos seus contemporáneos ou, se polo contrario, se trata dun discurso de crítica aos personaxes femininos que tamén está presente nos fabliaux, nalgunhas pezas teatrais e nas obras didácticas, como o Calila e Dimna, o Sendebar, o Barlaam e Josafat, Il Novellino e El Corbacho, entre outras.

 

Carlos TEIXEIRA (Universidade do Porto – CITCEM)

Caminhos para uma compreensão da lírica trovadoresca alemã – uma reflexão transcultural

A importância que os textos trovadorescos tiveram no pensamento e imaginário medieval e na consequente construção de uma poética europeia é certamente indiscutível. O fenómeno que atravessou reinos e cortes, pode ser encontrado desde a Península Ibérica até aos rios do norte da Alemanha. Contudo, apesar desta evidente preponderância, a academia ibérica parece, na sua maioria, ter vindo a dispensar o estudo comparativo e a análise dos textos trovadorescos a si vizinhos, em especial aqueles referentes ao caso alemão, apelidados de ‘Minnesang’ (séc. XII-XIV). No sentido de contrariar esta tendência, parece-nos essencial selecionar, editar e traduzir um corpus desta tradição, estudando as suas dimensões socio-culturais, literárias e linguísticas mais específicas, assegurando, assim, a existência de objetos empíricos e científicos referentes à vertente germânica deste fenómeno literário. Sendo precisamente este o projeto que de momento nos ocupa, propor-nos-emos aqui a refletir acerca dos processos metodológicos que o mesmo requer, traçando o caminho do medievalista até à concessão do trabalho, equacionando obstáculos, possibilidades e escolhas que durante este estudo poderão surgir. Tendo em conta uma perspetiva transcultural e não esquecendo o legado trovadoresco que o espaço ibérico nos deixou, tentaremos guiar a nossa exposição entre línguas e literatura através de duas linhas de pensamento: (1) Tradução – No seguimento de uma fixação do texto e de uma fundamentação conceptual, como traduziremos os poemas trovadorescos do ‘Minnesang’? Como trabalharemos conceitos medievais já extintos? Quais técnicas de tradução deveremos utilizar e como as justificar? (2) Compreensão transcultural – Em função dessa mesma tradução, como poderemos nós, através de uma perspetiva linguística e cultural fundamentalmente ibérica, falar dos conceitos desta tradição? A que cuidados deveremos atentar quando o fizermos? E que eventuais pontes poderemos através deste estudo transcultural estabelecer?

 

Ana BARJA LÓPEZ (USC)

‘Il Milione’ y sus variantes textuales. A propósito de la problemática de la tradición manuscrita de la obra

El relato de Marco Polo ha sido una de las obras más leídas y traducidas desde el final de la Edad Media, como demuestran las más de veinticinco versiones diferentes que se han recogido de la misma (representadas por uno o más manuscritos), y por las más de 140 copias conservadas, sin que haya pervivido el texto original. La tradición manuscrita refleja la amplia y rápida difusión de la obra en las lenguas más importantes del momento y, al mismo tiempo, se revela compleja y tortuosa. Las veinticinco versiones se reparten en dos grandes grupos o familias, A y B, sin que ello implique una relación de anterioridad de uno con respecto a otro. El stemma codicum muestra de forma clara el desequilibrio entre las dos grandes familias y la importancia de algunas versiones en la difusión de la obra. En el presente trabajo se ofrece una breve panorámica acerca de la cuestión de la tradición textual, tratando de hacer hincapié en el manuscrito que más amplia difusión tuvo en Italia en la época, el conocido bajo las siglas TA, que, además, se adaptaba a la lectura que la clase burguesa y mercantil dio a la obra. Marco Polo fue ante todo y sobre todo un mercader, por lo que consideramos necesario destacar esta visión. Bajo este enfoque se verá reflejada la perspectiva más próxima a la del mercante y a la de aquellos contemporáneos suyos pertenecientes a su mismo estrato social.

 

Federica FUSAROLI (Università degli Studi di Siena)

La tradizione manoscritta del ‘Libre de vicis e de vertutz’

L’intervento verterà sulle metodologie messe in atto nella fase iniziale di un lavoro di edizione critica dell’inedito Libre de vicis e de vertutz, traduzione occitana della Somme le roi. Come è noto, quest’ultima opera è un trattato morale commissionato intorno al 1279 da Filippo III l’Ardito al suo confessore, ovvero il frate predicatore Laurent. Il testo è stato tradotto in molteplici lingue, tra cui l’italiano, il catalano, l’inglese e appunto il provenzale. Rispetto alle dinamiche di questa traduzione, verranno forniti dati contestuali utili a ricostruire l’ambiente che può aver stimolato la traduzione nel Sud della Francia, in particolare nella zona compresa tra Aix-en- Provence e Marsiglia. Saranno condivisi i primi risultati emersi dall’analisi della tradizione manoscritta, sia completa che frammentaria. Verrà dedicata una particolare attenzione all’esposizione dei rapporti tra gli undici testimoni che costituiscono la tradizione manoscritta dell’opera e delle metodologie messe in atto per rilevarli. I pochi studi che si sono occupati del Libre – pressoché unicamente l’articolo di Cesar Boser, pubblicato su «Romania» nel 1895, e nel 1868 la pubblicazione di un estratto sulla Chrestomathie provençale di Bartsch – non risolvono la questione, assai spinosa e importante, dell’individuazione di un intermediario che giustifichi le differenze tra il Libre e la sua fonte. Postulata l’individuazione di più redazioni, sarà presentata la questione nella sua complessità, sia rispetto alla fonte – che deve essere meglio specificata – che ai suoi presunti derivati. Tutto ciò considerando anche lo studio di un manoscritto catalano (Biblioteca de Catalunya 740) di datazione antica, ma incerta, che contiene una versione del testo affine alla redazione principale del Libre ma in una traduzione catalana.

 

Ilaria LAVORATO (Università ‘La Sapienza’ di Roma)

Il ‘De diligendo Deo’ in lingua d’oïl. Verso un’edizione critica

Il volgarizzamento in antico francese del De diligendo Deo, trattato teologico in forma epistolare di san Bernardo di Chiaravalle, è tradito da un unico testimone, il ms. V del Musée Dobrée di Nantes. L’opera, ancora inedita, fa parte di un gruppo di traduzioni di testi devozionali prodotti tra il XII e XIII secolo in monasteri, soprattutto cistercensi, situati nell’area nord-orientale del dominio oitanico. Tali testi, ancora poco studiati, costituiscono i primi esempi di prosa letteraria francese. L’intervento mira a presentare le problematiche che pone la costituzione di un testo critico che rispetti le specificità dell’opera. Il volgarizzamento presenta infatti una serie di anomalie che sembrano in parte potersi ricondurre alle caratteristiche stilistiche della fonte stessa e alle modalità traduttive messe in atto dall’autore. Una prima analisi sintattica condotta sulla traduzione del De diligendo Deo infatti, oltre a evidenziare la presenza di un alto numero di costruzioni tipicamente latine – che risulterebbe del tutto anomalo in un testo francese del XII secolo svincolato dall’influenza della fonte -, sembra rivelare che la memoria del dettato biblico agisce da costante modello “in absentia” inducendo il traduttore, in corrispondenza delle moltissime citazioni del testo sacro di cui è intriso il trattato, a distaccarsi dalla fonte primaria per produrre strutture in apparenza anomale, ma che risultano motivate da un’adesione più fedele, quasi verbatim, al testo biblico. La sintassi si rivela inoltre particolarmente problematica a causa della presenza di strutture incongruenti, quasi “a-sintattiche”, forse riconducibili a un meccanismo traduttologico che talvolta parrebbe procedere per pericopi più o meno ampie. L’operazione editoriale, tanto più se si esercita su un’opera tràdita da un solo testimone, deve dunque affrontare e verificare tali questioni al fine di non rischiare, intervenendo su elementi che al lettore moderno potrebbero sembrare anomali, di privare il testo che si pubblica delle specificità che lo caratterizzano.

 

José Ángel SALGADO LOUREIRO (USC)

Aproximación a la cuestión del género literario y la interpretación de textos en
el caso del ‘Libro de los Estados’

En el Libro de los Estados, don Juan Manuel representa la sociedad de forma tripartita, diferenciando defensores, oradores y labradores. Parte de la crítica ha atribuido a la obra un valor descriptivo, adscribiéndola a distintos géneros literarios como el de los estados, los specula o la tratadística social. La presunción del género literario ha estrechado las posibilidades de interpretación del texto, como se puede observar en dos cuestiones siguientes. Primero, la no concordancia entre la representación de don Juan Manuel y la estructura social castellana. Segundo, la presencia de otros temas que no se han desarrollado lo suficiente, como el dualismo, la caballería o la salvación del alma. Buscaremos aquí una reflexión metodológica sobre los problemas que presentan la adjudicación de un género en la interpretación del texto medieval, centrándonos en el análisis del texto y de los trabajos de parte de la crítica. Para ello expondremos un aparato teórico que parte, principalmente, de la propuesta contextual de Dominck LaCapra sobre la relación entre el texto y las formas de discurso. Comenzaremos exponiendo brevemente el contenido y la estructura del Libro de los Estados. Tras ello, comentaremos la consideración que los distintos autores han tenido sobre la representación social juanmanuelina y trataremos los dos temas antes expuestos (la concordancia entre representación y realidad social; el tratamiento menor de otros tremas). En este punto desarrollaremos nuevas perspectivas de interpretación (LaCapra) más allá del género al que se asigna el texto.

 

Mafalda Sofia GOMES (Universidade do Porto)

Mães e Filhas: reflexões sobre caminho e desvio em ‘Eneasroman’ de Heinrich von Veldeke

Esta proposta de comunicação pretende refletir a respeito da relação entre mãe e filha contida em Eneasroman de Heinrich von Veldeke, texto paradigmático do período clássico da literatura alemã medieval (c. 1170-1190). A problematização do conceito de maternidade, questão recentemente considerada pertinente para o mundo académico, tem partido sobretudo da compreensão da maternidade enquanto instituição, produzida e organizada socioculturalmente, não raras vezes legitimada através do discurso literário. O pressuposto ancestral a partir do qual a maternidade seria uma manifestação inata do ser-se feminino, compreendida como fenómeno natural, imutável, de âmbito privado, afastado das esferas político-culturais é substituído pela tomada de consciência da sua historicidade, o que alertou quanto à importância da análise das figuras maternais às quais a literatura, num sentido abrangente, tem dado forma. Muito por via da coincidência do florescimento do culto mariano com o processo de textualização das línguas vulgares nos séculos XI e XII, a literatura deste período apresentou-se como espaço ideal de expressão de ideais de maternidade mesclados com uma estética muito particular, o que, não raras vezes, permitiu representar positivamente a mulher-mãe. Todavia, a maternidade nem sempre funcionara como instância de redenção da mulher. Apesar das figuras literárias em usufruto do estatuto de mãe não serem na literatura medieval, nomeadamente na literatura alemã medieval, figuras principais, ocupando frequentemente papéis secundários, os enredos confirmam a necessidade da sua figuração, impondo-lhe diferentes éticas: ora funcionam como instâncias tipológicas marianas, ora apresentam-se como veículo de instação de caos. Considerando a personagen como lugar prefencial de afirmação ideológica, proponho-me analisar a relação entre a Rainha, destituída de nome na versão alemã do texto de Virgílio, e Lavinia, sua filha, atentando ao tropo da mãe como mestra, representação do caminho, e da filha desordeira, retrato do desvio, procurando compreender de que forma a instituição literatura (o que é particularmente relevante se considerarmos a potencial dimensão normativa e didática de muitos textos deste período) dá forma à instituição maternidade.

 

Pedro MONTEIRO (Universidade do Porto)

Pero López de Ayala y Fernão Lopes: apuntes sobre la adjetivación en torno de la
aristocracia

Después de los estudios hechos por Teresa Amado relativos a la forma como Fernão Lopes conoció y utilizó la obra cronística del Canciller Ayala, hay aún muchos análisis posibles en torno de los estudios comparados de las narrativas de los dos cronistas que referimos. Así, esta comunicación se propone a examinar las adjetivaciones asociadas a las figuras de la aristocracia utilizadas por Ayala, en las crónicas de Don Juan I e Don Enrique III, y por Lopes, en la Crónica de Dom João I. El principal objetivo es intentar comprender de qué forma esas construcciones retóricas se aproximan o, por el contrario, se distancian. De esta forma, nos proponemos a analizar las construcciones de las figuras hechas por los dos cronistas, sean ellas tipificadas o no, para que consigamos alcanzar el sustrato político-ideológico que tanto Ayala como Lopes pretendían transmitir. Demostraremos así, como Ayala presenta y caracteriza los castellanos y los portugueses que apoyaron a Don Juan de Castilla durante la crisis dinástica portuguesa con adjetivos que atestan el bueno ejercicio de las armas, al mismo tiempo que no se manifiesta de la misma manera cuando presenta las figuras portuguesas que estuvieron del lado del Maestre de Avis. Por otro lado, Fernão Lopes elogia tanto los del bando de Dom João de Portugal como los que apoyaron el rey castellano, lo que nos remete para distintas estrategias narrativas utilizadas por los dos cronistas. Si parece claro que estas diferencias se hallan en las distintas tradiciones en las que los dos cronistas se insieren, nos parece que también podemos subrayar las distintas naturalezas de ideología política de Pero López de Ayala y Fernão Lopes, que todavía se manifiestan en obras cronísticas que tienen el mismo objetivo principal, aún que a través de dos perspectivas antagónicas: la legitimación de dos cambios dinástico irregulares.

 

Ana CAIÑO CARBALLO (Universidade de Vigo)

Algunos temas de la poesía dialogada de Juan Alfonso de Baena

El corpus de poesía dialogada de Juan Alfonso de Baena está integrado por preguntas y respuestas, por recuestas o por reacciones poéticas a demandas de otros autores. Los géneros dialogados son mayoritarios en la producción del compilador cordobés y, por ello, es evidente su afición hacia el debate poético. En cada uno de estos debates, 35 en total, se desarrollan múltiples asuntos en los que, aunque en la mayoría de los casos no se profundice, sí le sirven a Baena y sus interlocutores para polemizar y entablar un debate. En nuestro trabajo nos centraremos fundamentalmente en tres núcleos temáticos esenciales en su corpus: el quehacer literario, el amor y los contenidos burlescos y satíricos. Tangencialmente también se aluden a otros temas, como la fortuna, la astrología, la religión o cuestiones filosóficas o morales, pero siempre están supeditados a uno de estos asuntos, empleados como un recurso para atacar al adversario. Las características del género dialogado, en su mayoría, recuestas, condicionan el desarrollo en profundidad de estos núcleos temáticos. Las series, concebidas para entretener, como un juego de habilidad y virtuosismo, provocan que temas tan relevantes en la lírica cancioneril como el amor, la astrología, cuestiones filosóficas y morales o de gracia poética no sean más que un pretexto para iniciar un debate donde el contenido se supedita a la forma y al fin último de los textos: ser un pasatiempo para el rey y su corte, mediante el lucimiento del artificio técnico desplegado en estos versos.

 

Joel VARELA RODRÍGUEZ (USC)

El camino olvidado de Tajón de Zaragoza: acerca de unos seis siglos de crítica

Tajón de Zaragoza (c. 600 – 683) se cuenta entre los obispos de época visigótica cuya memoria gozó de mayor difusión durante la época medieval. Autor de unos Sententiarum libri quinque y un monumental centón exegético hoy perdido en su mayor parte, el conocimiento de su figura quedó indisolublemente ligado a un relato legendario de los Chronica muzarabica a. 754 que lo tiene a él como protagonista, la Visio Taionis, que habría de tener una larga vida independiente, tanto dentro como fuera de la península, desde el siglo VIII al XV. Allí se relata el hallazgo milagroso en Roma de las partes de los Moralia in Iob de Gregorio Magno que no podrían encontrarse por entonces en el reino visigodo, tras una revelación milagrosa que Tajón tuvo frente a la tumba de San Pedro. La figura de Tajón cuenta asimismo con una nada desdeñable historia crítica. De él hablaron César Baronio y García de Loaisa, Benito Arias Montano y Jean Mabillon, cada uno desde perspectivas e intereses diversos, pero las más de las veces en lidia con una leyenda cuya naturaleza les asombraba y se resistía a su correcta valoración por partes iguales. La difusión de los “falsos cronicones”, en los que Tajón tuvo una presencia importante, a cargo de Jerónimo Román de la Higuera y su círculo no hizo acrecentar este fenómeno. Ello habría de dar lugar a una revisión crítica en el siglo XVIII que derivó hacia un desprecio por Tajón y su figura del que todavía es heredera una buena parte de la crítica del XX. En mi comunicación quisiera rescatar del olvido esta larga tradición crítica, que hasta ahora es imposible leer en conjunto, y advertir hasta qué punto su peso puede seguir condicionando hoy en día la valoración sobre el autor, su memoria y sus obras.

 

Manuel NEGRI (USC – CRPIH)

Un fantasma nelle ‘Cantigas de Santa Maria’: modelli letterari e culturali

Le Cantigas de Santa Maria, opera diretta dal re Alfonso X Il Saggio e compiuta con l’ausilio del suo entourage di sapienti collaboratori per promuovere la devozione mariana nella Penisola Iberica riallacciandosi ad un’ampia tradizione miracolistica, ospitano numerosi miracoli che narrano casi di apparizione. Quest’ultime riguardano sia entità pienamente celesti e soprannaturali (Maria, il Diavolo, ecc.), richieste talvolta dalla stessa dinamica del miraculum, sia personaggi la cui dimensione terrena costituisce ancora la parte più preponderante e fissata nella memoria del fedele, nonostante la loro ‘frequentazione’ con l’altro mondo già durante la loro vita votata alla pietà (santi, religiosi, ecc.). Accanto a questi casi più ordinari di manifestazioni post mortem che interagiscono col fedele o col peccatore di turno, quello narrato nella cantiga 72 appare ai margini del sistema miracolistico alfonsino ed esemplare in generale. In esso, un’entità ancor non ben definita dalla critica in quanto solo brevemente descritta, appare ad uomo per comunicargli il luogo dove giace il cadavere del figlio (ucciso dalla stessa Vergine per un peccato di blasfemia), affinché il padre possa procedere con la raccolta delle spoglie mortali con lo scopo di donar loro cristiana sepoltura. Questo curioso caso miracolistico ha ricevuto in passato poche e sommarie attenzioni da parte degli studiosi del soprannaturale medievale descritto nei testi letterari, soprattutto per quanto concerne la sua natura corporea e spirituale, sempre definita in modo incerto e scarsamente ricondotto a precisi modelli di riferimento, sia letterari che culturali. Attraverso un recupero critico della tradizione miracolistica che fa capo a questo prodigio (studio comparativo delle fonti), e riconducendo parimenti il tema dell’apparizione del ‘fantasma’ di una serie di exempla ad un medesimo orizzonte culturale condiviso dalla cultura medievale a varie latitudini, si proporrà una sorta di identificazione per questo personaggio ultraterreno agente nel testo mariano alfonsino, oltre a chiarire l’esegesi del  verso della cantiga dove viene descritto.

 

Xoves, día 5 de Abril

 

Andrea TONDI (Università degli Studi di Siena – EPHE di Parigi )

Una biblioteca (quasi) sconosciuta: il catalogo manoscritti del castello di Merville

Nel novembre 2015, mosso dal mio progetto di edizione critica della seconda redazione della mise en prose della Chanson de la croisade contre les albigeois, mi sono recato al castello di Merville nel Dipartimento dell’Alta Garonna, in Francia: si tratta di un’antica villa fondata nel 1734 dai Chalvet-Rochemonteix, divenuta un polo di attrazione turistica nella campagna attorno alla città di Tolosa. Il proprietario attuale, Laurent de Beaumont, possiede diversi manoscritti il cui contenuto è per larga parte ignoto: fra questi figura un testimone dell’opera al centro dei miei interessi, afferente però alla prima redazione di cui non offrirò il testo critico, la cui presenza al castello mi è stata indicata dal libro Huit ans de la Guerre Albigeois di Dirk Hoekstra e pubblicato nel 1998. Dopo questa breve ma fruttuosa visita, ho deciso di farvi ritorno per procedere nell’indagine degli altri manoscritti e redigere un catalogo completo del fondo antico della biblioteca, che possa integrare quello già esistente per i libri a stampa dei secoli XVIII-XIX. L’unico tentativo di individuare le opere contenute nella villa si deve all’articolo di Marie-Jean-Célestin Douais Les manuscrits du château de Merville, contenuto in Annales du Midi 5, 1890: queste poche pagine hanno da subito destato una grande curiosità, dal momento che lo studioso indica la presenza di tre manoscritti: il primo è un autografo in lingua latina di Bernardo Gui, celebre inquisitore contro i catari e autore della Practica Officii Inquisitionis Hereticae Pravitatis; il secondo è un testimone di uno dei due volgarizzamenti in anticofrancese dell’Historia albigensis di Pierre des Vaux de Cernay; infine, ecco apparire la nostra prosa in antico occitano. Non solo, accanto alle opere già citate, trovano spazio tanto testi pratici (ad es. il registro degli ospiti della villa) quanto opere letterarie in lingue differenti, a testimoniare gli ampi interessi dei precedenti proprietari. A questo convegno pertanto offrirò i risultati di questa ricerca collaterale al mio percorso dottorale, sperando possa essere uno sprone a nuove ricerche e nuovi progetti nell’ambito medievistico per indagini su lingua, letteratura e storia.

 

Rossano DE LAURENTIIS (Università degli Studi di Firenze – Biblioteca Umanistica)

Dante ‘retore’ comunale: una vittoria e una sconfitta

In due occasioni ravvicinate Dante, da pochi anni datosi all’impegno politico per il Comunis Florentie, si dovette distinguere per capacità ‘retorica’: nell’ambasceria di San Gimignano del 7 maggio 1300 e – dopo il priorato del giugno-agosto – il 19 giugno dell’anno seguente, sostenendo la mozione contro la concessione di 100 soldati a Bonifacio VIII in lotta contro l’alleanza ghibellina. Pur confidando nel juste milieu tra le fazioni contrapposte, il cantor rectitudinis – istruito su sentenze dei contemporanei: «Sine iustitia enim nulla civitas potest bene vel in concordia regi […] et ideo omnis iniustitia removenda est a statutis civitatis» (Remigio de’ Girolami, m. 1319), o dei classici (e.g. Orazio) – approda alla «negazione di ogni possibilità di vita civile all’interno della forma-comune» (Claudia Villa) a causa di uom[ini] sanza cura (Purg. VI 107), come vengono chiamati i cattivi amministratori e reggitori nella famosa invettiva contro la serva Italia (Purg. VI 76). Dante traccia così una parabola che va dalla realtà comunale della Fiorenza mia (Purg. VI 127) fino alle aspettative ‘imperiali’ riposte in Aquisgrana, moderna Roma, ma in fondo priva di un suo Cesare. Lungo questo “arco di militanza e denuncia” nella Commedia sono ricreati da un lato episodi di vita comunale, salvo una certa scrupolosa reticenza delle questioni private del Poeta, proveniente da famiglia di tradizione guelfa (cfr. per una giustificazione Vita nuova XXVIII 2); e dall’altro lo stesso puntiglio de iure caratterizza il Dante ‘ghibellino’ che vorrebbe tornare al Liber Augustalis o Constitutiones Regni Siciliae (Melfi, Parlamento generale, 1231) della corte federiciana, sintomaticamente caratterizzato da un uso smodato dei verba biblici ed evangelici e redatto da Pier delle Vigne e da Giacomo, vescovo di Capua, due dei migliori giuristi dell’epoca. Il primo in particolare, figura di intellettuale ricordata da Dante come suicida trasformato in pianta (Inf. XIII 31-108; cfr. il saggio di De Sanctis 1855), per biografia (vittima di un complotto?) e produzione letteraria (sincretismo) sembra anticipare certi risvolti della personalità di Dante (D’Ovidio): una «complessa opera di contaminazione [che] non dev’essere valutata soltanto sul piano tecnico e più generalmente culturale, ma anche, almeno in alcuni suoi risultati, come strumento di un’arte, proprio nella sua inquieta e complessa artificiosità insieme psicologica e stilistica, a suo modo personale e suggestiva» (Emilio Bigi, ED, s.v. Pietro della Vigna). Al centro di questo disegno etico-religioso, come ‘chiave di volta’ sta – fuor di metafora si ricorda la Porta di Capua con le iscrizioni e le statue celebrative «quasi traduzione in pietra delle affermazioni teoriche sul principio della legge» (D’Onofrio) – la filosofia di Dante, che attinge parimenti dall’amore: nella Vita nuova (XXVIII 1) «lo segnore de la giustizia» corrisponde a Dio che chiama in cielo la gentilissima Beatrice beata; da lì la canzone Doglia mi reca (Barbi 1960, CVI) che segna il trascorrere fra due dei tre magnalia (secondo la triplice natura aristotelica dell’uomo, De vulgari eloquentia II ii 6): Venus in Virtus (Contini) e infine la considerazione del terzo argomento degno del volgare illustre: l’utile come Salus: Ché se la voce tua sarà molesta / nel primo gusto, vital nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta (Par. XVII 130-132), che è la profezia di Cacciaguida per il suo discendente.

 

Cristina PÉREZ PÉREZ (Universidad Complutense de Madrid)

Bibliotecas palaciegas en la Corona de Castilla: una aproximación a los espacios
del libro

Las bibliotecas palaciegas son un espacio de la residencia que aparece a finales de la Edad Media y se desarrollan exponencialmente a lo largo de la Edad Moderna. Este surgimiento vino propiciado por una serie de cambios socioculturales que elevaron el nivel intelectual de las élites: la nobleza y la realeza gustó de conformar notables colecciones librarias que nutrieran sus posesiones y les proporcionaran una fuente de erudición. La importancia dada a los libros aumentó, convirtiendo a este objeto en un elemento de gran relevancia en la vida de algunos personajes, y en el protagonista de numerosos ceremoniales y usos cortesanos. Gracias a todo ello, la nobleza comenzó a destinar espacios específicos de la residencia al uso y custodia de los volúmenes, conformándose así los primeros estudios y bibliotecas palaciegos. Este hecho está bien documentado en contextos como Italia o Francia, donde se conservan algunos de estas estancias, o bien distintos textos y documentos aportan descripciones de los mismos. Sin embargo el caso castellano es distinto; sabemos de las colecciones de la nobleza erudita y de sus residencias, pero esta información no detalla nada con respecto a los espacios del libro en el palacio, cuya existencia se deduce únicamente a través de escasas y breves menciones. A pesar de ello, la Corona de Castilla no fue ajena a los cambios culturales de finales del periodo medieval, y algunos de los miembros de la realeza y la nobleza participaron de ellos, desarrollando las nuevas corrientes culturales y artísticas en el territorio castellano, conformando vastas bibliotecas y adecuando sus palacios a las novedades arquitectónicas y cortesanas. Grandes familias como los Mendoza, los Velasco, los Pimentel, los Luna o los Benavides, entre otros, construyeron y modernizaron sus residencias, y además, las colecciones librarias de algunos de sus miembros son conocidas y han sido estudiadas en cuanto a contenidos. La unión de estos elementos, junto con las menciones documentales, denota la existencia de bibliotecas y/o estudios en sus palacios. Para el estudio de estos espacios destinados al libro, es de gran relevancia la realización de un corpus de residencias palaciegas castellanas mediante un mapeado del territorio, que permite catalogarlas y realizar una aproximación a su fisonomía y a los usos de sus estancias. Estos datos, en relación al análisis de las fuentes documentales y visuales, permiten profundizar en el conocimiento del espacio del libro en el palacio y su definición arquitectónica. El estudio de estos elementos es de gran relevancia para determinar la importancia del libro y su ceremonial en las cortes castellanas, así como la acogida de las nuevas corrientes culturales y arquitectónicas por parte de la nobleza y la realeza, con la creación de bibliotecas y estudios como elemento resultante del asentamiento de estas tendencias.

 

Santiago ZAMORA CÁRCAMO (Universitat de Barcelona)

Los índices de época moderna como fuente de estudio para la edad media. El
caso de los archivos patrimoniales

Los archivos patrimoniales se formaron mediante la acumulación de documentación por parte de una familia, ya fuera de origen noble o humilde, o de una institución. En algunos casos estos archivos fueron generando una cantidad importante de documentación para la administración de las propiedades que, después de siglos de acumulación, generaba bastante dificultad para su uso. El paso de los siglos y los cambios en los protocolos, los formularios de los documentos y los tipos de letra dificultaban la correcta comprensión de la documentación, algo que solo estaba al alcance de unos pocos. Durante el siglo XVI y XVII se empezaron a realizar algunos índices con resúmenes de la documentación anterior, que facilitaban su acceso, aunque estos suelen ser fragmentarios. Durante el siglo XVIII, en cambio, se empezó a generalizar en los archivos patrimoniales, en especial en los familiares, la realización de extensos y detallados índices con la ayuda de notarios u otros letrados, los cuales contenían un resumen, bastante similar a nuestros regestos, de toda la documentación conservada. Estos índices estaban escritos en la lengua que hablaban en ese siglo y, por tanto, eran mucho más sencillos de entender por los administradores de la época. Además, contenían el identificador para encontrar el documento original en caso de que fuera necesario. Estos índices facilitaron su gestión, por lo que la forma de ordenarlos y el contenido de estos es muy interesante para el estudio de los patrimonios a los que se refieren, además de facilitarnos el acceso a documentos que se pudieron perder o traspasar en siglos posteriores. La presente comunicación pretende explicar la importancia de esta documentación y lo que puede aportar al estudio, a la par que las limitaciones y riesgos que conlleva, mediante el análisis de los 6 índices de época moderna que se conservan en el fondo Fontcuberta, un fondo perteneciente a una familia de origen humilde que conseguirá reunir muchas propiedades y que, de época medieval, conserva documentación referente a diversos archivos patrimoniales.

 

Elena ALBARRÁN FERNÁNDEZ (Universidad de Oviedo)

Notario público del rey: señorío regio y notariado en la Asturias medieval (ss.- XIII-XIV)

En el marco de un proyecto de investigación más amplio, proponemos una comunicación sobre uno de los aspectos más relevantes de dicho proyecto: entender la implantación y desarrollo del notariado público en Asturias, como un elemento clave en el ejercicio del poder regio en su señorío. Los siglos XIII y XIV son una época de desarrollo de una intensa actividad política y administrativa por parte de los monarcas castellanos. Tomando como punto de partida el reinado de Alfonso X, Asturias será objeto del ejercicio de dos particulares prerrogativas regias: la creación de nuevas pueblas y la creación de notarios. Ambas dos se enmarcan en un contexto más amplio, esto es, el renacimiento urbano en plena ebullición en Occidente desde la centuria anterior, y la difusión de un Ars notariae desde el norte de Italia, que será el motor de creación de notarios públicos en los distintos reinos cristianos. Ahora bien, aunque la obra legislativa elaborada por Alfonso X – Fuero Real, Espéculo y Partidas – trata de definir y proteger los derechos y poderes de la monarquía, muchas de estas prerrogativas regias entrarán en conflicto con concesiones previas de jurisdicción, ejercidas ahora por los otros dos grandes señores jurisdiccionales asturianos: la Iglesia de San Salvador de Oviedo y Rodrigo Álvarez de Noreña, entre otros. Una de las facultades regias más disputadas por estos poderes señoriales será la creación de notarios públicos. A lo largo del primer siglo de andadura de esta institución en Castilla, se hará patente la difícil posición de los monarcas para defender su derecho a nombrar notarios, y pronto empezarán a aparecer escribanos públicos designados por el obispo de Oviedo y la Iglesia de San Salvador, así como por algunos de los representantes de la más alta nobleza asturiana. En este contexto, y en una sociedad eminentemente analfabeta, el notariado público se convertirá en un instrumento indispensable por su condición de receptor de la fe pública, un elemento clave en el desarrollo de la vida económica, un eslabón entre el poder político y el pueblo, así como un testigo de la memoria de la sociedad.

 

Amalia TRANCHO MENÉNDEZ (Universidad de Oviedo)

El menú medieval en imágenes: el pan en la iconografía

Las imágenes medievales además de transmitir mensajes son fuentes imprescindibles de información para el historiador de la alimentación. Las representaciones de platos u otros utensilios utilizados para comer y cocinar resultan ser idénticos a los que nos muestra la arqueología o encontramos en los inventarios de una casa nobiliaria. Así vemos que los productos más representados y con mayor carga simbólica son los panes, las aves, las carnes de cordero y las piezas de caza, la sal y el vino, que en Asturias es sustituido en ocasiones por la sidra, en xarres o toneles como los representados en los canecillos de la Iglesia de San Juan de Rio Mera, en Aller, o en la de San Martino de Villallana, en Lena. De todos ellos es el pan el elemento más común y abundante en la iconografía medieval. En él se conjugan el valor simbólico de las tradiciones romano-cristianas y judía, además de servir como base de toda la alimentación medieval. Es un alimento sagrado, que aparece en las representaciones de la última cena y en muchas imágenes como único alimento al ser, al tiempo, material y espiritual. En el rito de Pascua, según la tradición judía medieval, se representa en forma de tortas ácimas o Massot. Los distintos tipos de pan van a indicarnos quienes son sus usuarios: La hogaza grande, los campesinos. Aunque de forma idealizada, pues los panchones que aparecen en las imágenes son blancos, nada que ver con los que realmente consumían estos campesinos de Asturias, donde la escasez de trigo común y de otros cereales panificables, obligaban a elaborarlos con la variedad triticum diccocum –la escanda asturiana- de aspecto áspero y oscuro, aunque sabroso y nutritivo. El pan con una cruz o un cuadrado en la base, se distribuía entre los pobres, enfermos y peregrinos por las instituciones de caridad conociéndose así, como “el pan de los pobres”. Esa sinal, o seña, sería luego obligatoria para todas las panaderas como una verdadera simbología. La cruz en la base se repite como elemento común en la iconografía de numerosos países. También en los refraneros populares está presente esta iconografía del pan estableciéndose, por ejemplo, una relación entre salud y enfermedad: – Pan de centeno para su enemigo es bueno. – Pan de trigo candeal o tremés, lo hizo Dios y mi pan es.

 

Alba RODRÍGUEZ SILGO (USC)

La indumentaria medieval. Formas y contraformas de un conflicto

La indumentaria es un fenómeno cultural y social históricamente olvidado e incluso despreciado por los historiadores. De la misma manera que todas las creaciones humanas, la moda expresa cambios sociales y culturales, pero debido a sus específicas condiciones de producción (más velocidad, menos coste y fabricación doméstica en la época de la que vamos a hablar) es capaz incluso de mostrar matices culturales que otras disciplinas artísticas tardarán más en proyectar. Desde el origen de la historia hasta la revolución industrial, la indumentaria siempre había sido tratada por sus coetáneos como un bien que, por diversas razones, debe ser conservado y legado a la siguiente generación. Pero por otro lado, para las clases acomodadas era también un objeto estético con una importante faceta estética. Es más, las fuentes escritas tales como pragmáticas o leyes suntuarias, convierten a la indumentaria en un elemento que debe ser ordenado o disciplinado con el fin de evitar el lujo excesivo o la utilización de formas y materiales que sobrepasen los límites de la moralidad establecida. La Edad Media reproduce esta praxis con constantes referencias a la cambiante doctrina social que emana del estamento religioso. La necesidad de cubrir el cuerpo, tanto femenino como masculino, obliga a transformar no sólo formas sino también materiales y medios de producción. Durante la Edad Media las prendas se caracterizarán, en su generalidad, por tejidos más gruesos, de confección más robusta y diseño más holgado – por lo tanto alejándose de la estructura corporal. A pesar de ello, la constante redacción de leyes suntuarias, pragmáticas y demás literatura al respecto, evidencia que la evolución de la vestimenta estaba sujeta también a otras fuerzas y otros agentes, lo que se traduce en un seguimiento irregular de estas mismas leyes y, por lo tanto, en una cierta variedad y riqueza de diseño. Se deduce, de este modo, un conflicto en el ámbito de la indumentaria que al lado de otros conflictos de la época puede parecer menor pero que es transversal. Lo que ha llegado a nosotros es una serie de fuentes literarias y visuales que nos permiten estudiar distintas tipologías en la vestimenta como materialización de ese conflicto soterrado. Bragas, sayas, pellotes, aljubas, tabardos y capas son solo algunas de las concreciones de época de todo esto. Pero, además, será necesario ampliar este horizonte con elaboraciones propias de los distintos territorios que exceden los límites de lo que podríamos llamar un estilo internacional – o cuando menos europeo– de la indumentaria de este momento.

 

Silvia ALFONSO CABRERA (Universidad Complutense de Madrid)

El camino de un estudio interdisciplinar: La figuración de la infancia en el arte medieval y su correspondencia con la Teoría pediátrica de los siglos XIII-XVI

¿Cuáles son los retos que nos plantea la figura del niño en el arte medieval en su relación con la teoría médica coetánea? Lo primero que debemos señalar al respecto es que el estudio de la infancia en su conjunto es complejo, más si hablamos de épocas históricas anteriores a la Edad Contemporánea, en la que los testimonios no son abundantes. Hemos tenido que circunscribir nuestro estudio a una etapa concreta, la Baja Edad Media, estableciendo un marco aproximado de 300 años (1200-1500) y limitando todo ello a unas áreas concretas, la Península Ibérica y su influencia y proyección a lo largo del Mediterráneo. La elección de esta cronología no es casual: es el final de la Edad Media, que evoca ese “otoño” medieval que refiere Huizinga, donde los elementos naturalistas, sentimentales y anecdóticos prevalecen frente a otros. Como podéis observar con este panorama, la situación es más compleja de lo que a priori pudiera parecer, por lo que es posible que a medida que avance la investigación tengamos que acotar aún más nuestro estudio. La complejidad del estudio de la infancia en el ámbito artístico medieval viene dada por muchos motivos: primero porque el estudio de la disciplina es relativamente nuevo, al menos desde el punto de vista comparativo entre arte y ciencia, siendo por tanto un trabajo que requiere unos conocimientos médicos fundamentales. A la hora de estudiar las fuentes escritas de índole médica, no podemos desechar obras que no pertenezcan estrictamente al ámbito de la pediatría. En muchas ocasiones la fuente encontrada será un corpus que albergue diversas materias siendo nuestra búsqueda sobre temas infantiles más ardua, requiriendo un análisis concienzudo del contexto de la propia obra. Advertimos que la cautela debe ser grande en este ámbito ya que debemos tener en cuenta los contenidos que emanan de un contexto cultural con otro (ej. si estudiamos el arte hispanomusulmán del siglo X no encontramos representaciones de la infancia, a pesar de que en este momento y en este lugar se escribiera uno de los tratados pediátricos más completo de la Edad Media, El Libro de la generación del feto de Ibn Said de Córdoba). Nuestra tesis, por tanto, se asemeja bastante a una travesía cuesta arriba en la que nuestros pasos, a veces, no son tan estables como nos gustaría. Otras veces, se parece más a un remanso de paz, en el que atisbamos el horizonte con orgullo y seguridad. En definitiva, un camino de experiencias, cambios, ilusiones y esfuerzo que merece la pena afrontar para seguir creciendo académicamente y personalmente. Quiero concluir mi humilde aportación parafraseando a uno de los grandes medievalistas del siglo XX, Umberto Eco, quién decía de la tesis doctoral: Hacer una tesis significa divertirse y la tesis es como el cerdo, en ella todo tiene provecho.

Manuel ANEIROS LOUREIRO (USC)

A propósito del atributo del tercer jinete del Apocalipsis: el texto bíblico y el modelo iconográfico medieval

El episodio de los Cuatro Jinetes del Apocalipsis (Ap 6, 1-8) ha sido representado plásticamente de forma prolífica a lo largo de toda la Edad Media. A los tres primeros jinetes, el escritor del Apocalipsis asigna su correspondiente atributo: un arco, al primero; una espada, al segundo; y una balanza, al tercero; del cuarto no especifica que porte objeto alguno. La balanza del tercer jinete del Apocalipsis, debido a que el grupo ecuestre anuncia una serie de desastres y calamidades que asolarán a la humanidad, ha sido considerada por algunos autores como un elemento escatológico utilizado por el jinete para determinar el peso de las almas. Sin embargo, si revisitamos el texto griego del Apocalipsis, el escrito pudiera sugerir que se trata de algún otro tipo de objeto. La propuesta de este trabajo es, por lo tanto, el estudio de la representación medieval (entre los siglos X y XII, principalmente) del atributo del tercer jinete del Apocalipsis, su conexión con el texto bíblico y éste, a su vez, con modelos iconográficos de la Antigüedad. Existen determinados aspectos que incitan a pensar en una posible malinterpretación de algunos términos literarios que fueron asumidos de una forma concreta por la iconografía posterior. Consideramos, como ya hemos adelantado, que el objeto que porta en su mano el tercer jinete del Apocalipsis pudiera tratarse de otro elemento distinto a lo que estamos acostumbrados a ver en pinturas, frescos o ilustraciones: una balanza de brazos iguales.

 

Diego ASENSIO GARCÍA (Universidad de León)

¿Quién es quién? Imágenes, mensajes y roles en la miniatura regia de los cartularios catedralicios del reino de León (s. XII)

La Corona de León, a lo ancho de su diversa geografía, ha sido legataria y legadora de un saber hacer que, adoptado y perfeccionado, constituye una de las cúspides del esplendor artístico de los territorios leoneses: el arte de la miniatura. El Liber Testamentorum de la Catedral de Oviedo, el Tumbo A de la Catedral de Compostela y el Libro de las Estampas de la Catedral de León son las principales galerías de retratos regios enmarcadas dentro de los movimientos compilatorios cartularios del s. XII. Sin olvidar otros ejemplos de este empleo de la miniatura como vehículo de comunicación política persuasiva -concebidos en circunstancias distintas-, los tres cartularios catedralicios vertebran un eje que responde a la coherente necesidad vindicatoria de una preponderancia geopolítica claramente amenazada por los cambiantes contextos del cambio de siglo y de modelo de gobierno. Sin embargo, la revolución conceptual de estas imágenes se plantea en su esencia misma. Si bien la evolución iconográfica lógica de estos retratos bebe de los modelos otonianos heredados de la Roma bajoimperial, la estructura del proceso comunicativo entraña matices sorprendentes, puesto que los protagonistas de este juego de mensajes no son quienes parecen ser. Desde el estilo románico preñado de influencia francesa a través del Camino de Santiago -como antes hiciese el estilo mozárabe a través de la Vía de la Plata-, hasta el discutido, efímero y brillante estilo 1200, serán estas coronas y sus efigies, los colores y sus promotores quienes nos remitan, en pleno s. XII, a un ejercicio de propaganda política que entraña fórmulas nuevas bajo el cálamo de formas antiguas.

 

Margarita VÁZQUEZ CORBAL (USC)

¿Leyenda, escatología o tradición?: los motivos serpentiformes en el románico gallego y portugués

La presente comunicación tiene como objetivo analizar e interpretar los motivos iconográficos serpentiformes presentes en el sur de Galicia y el norte de Portugal, con especial interés en aquellos que además de presentar dificultades a la hora de identificar su origen o realizar una interpretación, son repetidos tanto en los repertorios escultóricos de los edificios religiosos de ambas zonas geográficas. Esta investigación emana directamente de un interés surgido durante la elaboración de la tesis doctoral “Arte Románico en la Antigua Diócesis de Tui” (USC, 2015). Tras analizar una ingente cantidad de ejemplos de arquitectura románica tanto en la parte gallega como portuguesa de esta diócesis se constató la existencia de un número importante de motivos serpentiformes que ornan diferentes elementos arquitectónicos y escultóricos que merecen un estudio pormenorizado desde el punto de vista iconográfico por varios razones: su originalidad, su trascendencia y las dificultades que entraña el distinguir el origen de estos motivos y lo que representan. Entre estos ejemplos hemos de destacar las cabezas con cuerpos serpentiformes de los capiteles de la Catedral de Tui (Pontevedra, España) representadas también en capiteles y otros soportes en otros ejemplos de la diócesis o el “esgrafiado” con forma de serpiente de S. Fins de Friestas (Valença, Portugal) entre otros. Además hemos ampliado el marco territorial en este nuevo estudio sin ceñirnos únicamente a la antigua diócesis de Tui sino a todo el norte del país luso incluyendo ejemplos como el del dintel de la iglesia de S. Pedro de Rates (Póvoa de Varzim, Portugal). Como bien expresa el título intentaremos descubrir si estas iconografías derivan de lo fabuloso y lo legendario, de la escatología cristiana o de la tradición popular de estas zonas y el mensaje que han pretendido transmitir a través de su pétrea presencia.

 

Julen IBARBURU ANTÓN (Universidad de Granada)

El puente de las bubas. Conexión cultural y mortandad a través de ‘El séptimo sello’ (Bergman, 1956)

La llegada de la peste transformó el Occidente medieval, las actitudes y comportamientos trascendieron el propio plano de lo vital para afectar la cultura, economía y política del entramado social. Profundamente influido por esta realidad, el cineasta sueco Ingmar Bergman dirigirá en 1957 la película Det Sjunde inseglet, traducida en nuestro país como El séptimo sello. El film recorre la historia de un caballero cruzado en su vuelta al hogar, acompañado por su fiel escudero; juntos descubrirán un panorama desolador con un escenario asolado por la llegada de la peste negra. Más allá de la propia estética de la obra, marcadamente influida por las vanguardias, El séptimo sello goza de un doble valor. Por un lado, construye y representa elementos muy concretos claves para comprender este período, al tiempo que nos permite construir un puente que conecte el siglo XIV con la modernidad barroca. En este sentido, la enfermedad, a través de la película, nos permite tender un puente entre dos momentos muy separados en el tiempo. El siglo XIV y el siglo XVII quizá no tengan mucha relación pero por medio de la comprensión de la Historia cultural y la Historia de la enfermedad podemos distinguir numerosos nexos referidos a las reacciones del pueblo ante esta epidemia. Las proximidades culturales y mentales posibilitan vislumbrar vías de transmisión no únicamente de conocimientos, como estamos acostumbrados a estudiar, sino también de emociones y sentimientos. Todo ello de manos del cine, arte que desde los años 90, ve transformada su entidad como objeto susceptible de protagonizar la investigación histórica al comprenderlo no sólo como una vía para comprender el pasado que aparezca en la pantalla sino interpretado como una fuente propiamente histórica.

 

Amalia PÉREZ VALIÑO (USC)

La muchacha que baila: La figura de Salomé y la danza en la Edad Media

La danza nace al mismo tiempo que el ser humano da sus primeros pasos en el mundo y se convierte en una parte esencial de la vida, pues es la expresión del ritmo, ese tono interno que todos los hombres y mujeres llevan en su interior y que está en constante sintonía con el devenir de la tierra. De esta forma, ya desde la antigüedad, el baile tiene un fuerte componente ritual, siendo considerado en muchas culturas como una forma sagrada de comunicación con la naturaleza o con los dioses. Tanto en Egipto y Mesopotamia como en Grecia, la danza era parte intrínseca de la cultura y sin ella muchos de sus rituales carecían de sentido. El movimiento rítmico no sólo les asistía en su ansia por comunicarse con sus dioses y a acompañar las almas de sus difuntos, sino que también les ayudaba a sentirse más cerca de ellos. La concepción de la danza como parte de la expresión necesaria del ser humano cambia cuando el cristianismo aparece en escena. Como es bien sabido, las primeras comunidades cristianas realizan una importante labor de síntesis entre el nuevo culto y las antiguas formas. A pesar de ello, el baile no encuentra su lugar en la nueva religión, debido quizás a esa conexión profunda entre el hombre y la divinidad que traía desde antiguo y da comienzo su rechazo. A través de este estudio se pretende llegar a un conocimiento más profundo de lo que significa el baile para el ser humano y para la religión y cómo se llega a la mirada condenatoria que la Iglesia pone en él. Para ello centraremos nuestra atención en el caso paradigmático de Salomé, la muchacha que mediante su baile consigue la cabeza de San Juan Bautista, y que por lo tanto representa la vertiente pecaminosa de la danza.

 

Venres, día 6 de Abril

 

Juan José SÁNCHEZ CARRASCO (Universidad de Granada)

Conflictividad social a finales de la Edad Media: apuntes sobre los homicianos en la Guerra de Granada

La conquista del Reino Nazarí de Granada supuso un esfuerzo a nivel personal, político y económico para la Corona de Castilla. En los 10 años que duró el conflicto la economía del reino varió y tuvo que adaptarse a las ingentes cantidades de dinero que se necesitaban para sustentar los sitios y los gastos del numeroso ejercito reunido. A nivel personal podemos destacar la participación de un gran número de soldados de diverso origen social: nobles, miembros de la casa del rey o peones de realengo, peones de tierras señorío, peones de distintos concejos, voluntarios, ordenes de caballería, miembros de la Santa Hermandad, etc. El presente ensayo se centra sobre peones que participaron en el conflicto, pero por su condición de homicianos, jamás han tenido repercusión en las crónicas y bibliografía derivada de la conquista del último emirato musulmán del occidente mediterráneo. Los homicianos suelen aparecer en zonas de frontera a lo largo de toda la Edad Media, zonas peligrosas en las que estos criminales se asentaban a cambio del perdón de sus delitos. En la guerra de Granada se emitieron varios edictos en toda la Corona de Castilla que permitían la condonación del castigo por diversos crímenes a cambio de permanecer en varias fortalezas durante un periodo de seis meses. Gracias a la rica documentación depositada en el Archivo General de Simancas, sección Cancillería. Registro del Sello de la Corte, podemos hacer una radiografía de la sociedad a lo largo de la guerra granadina. Gracias a un vaciado exhaustivo de la documentación del mencionado fondo, se han localizado un gran número de cartas de perdón de homicianos. Tras la transcripción de esta documentación conocemos el nombre, origen y delito de estos criminales. Siendo bastante característico que casi todos los homicianos asentados en Granada entre los años 1490 y 1492 provenían del Reino de Galicia y del Principado de Asturias. Por último, gracias a este estudio, podemos aportar unas pinceladas sobre la conflictividad social a finales de la Edad Media.

 

Roque SAMPEDRO (USC)

Comercio medieval, mercados y ferias, y orden espontáneo del siglo X al XIII

Esta comunicación busca explorar las posibilidades de comprender el comercio del occidente medieval entre los siglos X y XIII a través de teorías socio-económicas desarrolladas durante el siglo XX. Se estudiará, en especial, la institución del “mercado periódico” a partir de ejemplos de Inglaterra, Francia e Italia. Es decir, nuestro objetivo es experimentar con las posibilidades que ofrece el marco teórico de la economía política de la escuela austríaca, a la hora de interpretar y explicar la multiplicación de mercados y ferias, ubicando dicha emergencia en la intersección de una multiplicidad de factores (aumento del excedente, crecimiento demográfico, cambios sociopolíticos, etc). Queremos enmarcar, además, esta comunicación en los cambios que se han dado en las últimas décadas en la historia económica de la Edad Media que, especialmente en el caso inglés, se ha venido destacando la importancia del comercio en la vida cotidiana, en lo que se ha venido llamando el “commercialization model”. En primer lugar, y con este objetivo, procederemos a definir una serie de conceptos del ámbito de la economía política, basándonos en la obra de F.A. Hayek, así como de autores de la escuela austríaca más actuales como Jack High: a) agencia individual y colectiva, entendida como las acciones de individuos o grupos que intentan lograr diferentes objetivos (beneficio económico, prestigio, objetivos éticos, etc), así como la interacción entre estos individuos y grupos. Incluimos aquí tanto a mercaderes, como campesinos, señores, e incluso el propio movimiento de la Paz de Dios. b) instituciones emergentes, es decir, la aparición de fenómenos sociales regulares (como los mercados y las ferias) a partir de procesos de imitación de diferentes prácticas sociales. c) orden social espontáneo, entendido como una regularidad en la interacción entre diferentes instituciones, mencionadas anteriormente, de forma que algunas instituciones dependen de la existencia de otras (los mercados dependerían de cierta protección jurídica, por ejemplo), sin necesidad de una planificación previa, como sería el caso, en nuestra hipótesis, del comercio medieval. En segundo lugar, en relación a la obra de historiadores clásicos, como Henri Pirenne, y contemporáneos, como Dominique Barthélemy, Robert Fossier, Richard Britnell o Chris Wickham, veremos una serie de elementos de la explicación: a) el aumento del excedente a partir de la re-estructuración del señorío en los siglos X y XI. b) a seguridad y la reducción de la incertidumbre, facilitada, en parte, por las instituciones de paz que se extienden a partir de finales del siglo X. c) el origen de “mercados periódicos” y ferias, y su multiplicación entre los siglos X y XIII, así como el rol en los mismo de las festividades religiosas, los campesinos, los señores o los propios mercaderes. Finalmente, concluiremos reflexionando sobre las posibilidades del marco teórico propuesto a la hora de interpretar el auge comercial de la Plena Edad Media, a través de los mercados y las ferias, como un fenómeno contingente, dependiente de múltiples factores, y no como el producto de una planificación consciente, sino de las interacciones de individuos y grupos, tanto cooperativas como coercitivas, pero interacciones, en definitiva, no planificadas.

 

Francisco de Asis MAURA (Universidad de Salamanca)

El silencio de Dios frente a la sonoridad de la violencia: la guerra de venganza caballeresca en la sociedad previa a la Paz de Dios (987-1020)

En los escasos treinta años que analizaremos en este artículo (987-1020), la guerra y el monopolio de la violencia otorgaban a quién la poseía un poder casi divino para regular la sociedad que trataba de gobernar. Lo que Pierre Bourdieu bautizó como violencia simbólica entre señores feudales y jóvenes caballeros convirtió en endémica la guerra, espoleando la violencia a través de enfrentamientos a pequeña escala que respondían a diversas afrentas, ya fuera para salvaguardar el honor, expandirse en territorio enemigo o solucionar mediante la venganza limitada o faida una transgresión personal entre nobles. Estos brotes regulados de violencia caballeresca nacen en un contexto de guerra joven en la infancia de la Europa del siglo X, donde la Iglesia, más ética que resolutiva, trató de moralizar la guerra y reorientarla sin éxito aparente hasta el año 1020 con la instauración de la Paz de Dios. Los testimonios de Richer de Reims, Raoul Glaber o Adémar de Chabannes, serán tratados y diseccionados aquí para iluminar el proceso, así como ciertos pasajes de la canción de gesta Raoul de Cambrai para analizar las reminiscencias guerreras que dejó este periodo, analizando tanto las distintas tipologías de violencia (razonada, sonora, pasional, carnal, vengativa o generosa) como el nacimiento del iuvenes caballeresco, su función en la guerra y los tipos de caballería (primitiva, soñada o desmesurada) que encontramos en las crónicas del momento y en estudios especializados posteriores. Por ello, el objetivo final de este artículo, será mostrar la violencia del momento como una polifonía bélica orquestada a través de la guerra pero repleta de matices asonantes, cuya sonoridad y eco resuenan todavía en nuestro tiempo.

 

Laura CAMINO PLAZA (USC)

Que podemos facer coas mulleres do pasado?

No 2014 saíron á luz unha serie de textos que se aproximaron desde distintos campos e enfoques á memoria e á historia e que foron recollidos baixo o suxestivo nome ¿Qué podemos hacer con el pasado? A lectura daqueles artigos non inspiraron unicamente o título deste traballo, como ben se pode apreciar, senón que amais axudaron a reflexionar máis pausadamente sobre cal é a posición das mulleres dentro dese pasado e, tamén, dentro da crítica a ese pasado. Recuperar voces femininas da historia sen modulalas demasiado ao noso antollo é, para toda persoa que se adique á investigación, unha tarefa tan necesaria como difícil; recuperalas sen xulgalas ata o punto de dubidar da súa propia existencia, sen masculinizalas ou infantilizalas, é outro deber que parte da crítica aínda ten pendente. Este traballo bascula, así pois, entre dous obxectivos básicos. O primeiro implica identificar as dinámicas que a crítica posterior empregou para cuestionar e silenciar ás mulleres que formaban parte da elite cultural da Francia e Inglaterra dos séculos XI e XII. O segundo consiste en reivindicar a necesidade aínda vixente de facer estudos de xénero tamén voltando a vista cara o pasado. Os referentes femininos da historia común previa que recuperemos agora co noso traballo serán, de seguro, esperanza para as mulleres do futuro.

 

Chiara MANCINELLI (Universitat Autònoma de Barcelona)

Vivir la pobreza y pensar en la economía: frailes y conventos franciscanos en la Corona de Aragón bajomedieval

Nos proponemos presentar una rama de estudios poco conocida en España, que hemos desarrollado en nuestra tesis de doctorado y que deseamos seguir investigando. Hacemos referencia a la reflexión ética–económica medieval, es decir al lenguaje empleado para hablar de economía en la Edad Media, más precisamente a la reflexión elaborada por los representantes de las ordenes mendicantes, y, más aún, a los estudios que investigan la economía de los conventos en relación a estas consideraciones teóricas. Este tipo de aproximación cuenta con varios precedentes a nivel europeo y, recientemente, con el primer ejemplo español: el convento del Santo Espíritu del Monte, fundado cerca de Valencia a principios del siglo XV. La interesante premisa dada por la posible influencia del franciscano Francesc Eiximenis en la fundación del convento ha dado como resultado no sólo demostrar la influencia de sus consideraciones teóricas en la organización económica del Santo Espíritu, sino que ha puesto de manifiesto la estrecha relación existente entre la familia real y la Orden franciscana, que abarca intereses políticos y de control del territorio. El desarrollo de la Observancia y la evolución en la reflexión económica franciscana, directamente conectada con el contexto económico-social del territorio, son otros dos aspectos fundamentales emergidos en el breve lapso de tiempo de nuestra análisis: los inicios del siglo XV y el 1457, año en que las rentas censales, asignadas por la reina María de Luna al Santo Espíritu para que pudiera sustentarse dado su aislamiento y aprobadas por Eiximenis, son quitadas por la injerencia de la reina María de Castilla al ser incompatibles con el voto de pobreza observante, posiblemente por la influencia del fraile menor Matteo d’Agrigento, contrario a los censales. El panorama surgido en los apenas cincuenta años de historia descritos en nuestra tesis nos ha motivado a profundizar en estos aspectos, queriendo investigar la Observancia franciscana española, un terreno casi inexplorado por los investigadores nacionales y extranjeros. Este movimiento reformador, que termina por ser en siglo XVI la única representante de la Orden, se desarrolla en la provincia de Aragón bajo el amparo de la familia real, primero con el reconocimiento del papado aviñonés y luego del romano. El mapa geográfico que perfilan las nuevas fundaciones deja entrever una precisa estrategia de desarrollo en lugares con escasa representación franciscana, alta presencia de judíos y musulmanes y económicamente dinámicos. Los representantes ilustres de la Observancia son utilizados como personal político como mensajeros, embajadores y para pacificar conflictos tanto por la Corona como por las ciudades y su presencia y la de los conventos es vivida como una aportación plenamente positiva y casi salvífica. Lejos de ser una cuestión puramente devocional, las fuentes que sirven para el estudio serán sobre todo indirectas (los registros de cancillería real, los libros del maestre racional y de las Bailías, los bularios pontificios…) a causa de las pérdidas en los archivos de los conventos causadas por la desamortización y la guerra civil. Todos estos aspectos, claramente resumidos, son los que proponemos para el Congreso.

 

David LACÁMARA AYLÓN (Universidad de Zaragoza)

El complejo molinar de la Zaragoza bajomedieval y el control y distribución del agua. ¿necesidad o negocio?

La ciudad de Zaragoza y su entorno se encontraban, en la Baja Edad Media, ampliamente
abastecidos de agua, tanto para uso urbano como para uso agrario. Uno de los sistemas de suministro principales se llevaba a cabo a través de una tupida red de acequias, canales y brazales que, en algunas ocasiones, constituían corrientes de gran caudal y que
alcanzaban decenas de kilómetros de longitud. En este contexto surge una problemática concreta en torno a la administración del agua y, especialmente, en lo relativo a la prioridad de uso y disfrute de la misma. Dicha problemática tenía principalmente dos vertientes: la netamente agraria, en la que los pleitos surgían entre ostentadores de las propiedades agrícolas a regar y, en segundo lugar, la surgida entre los agricultores y los propietarios o explotadores de los molinos hidráulicos de la ciudad. Un molino hidráulico no era una infraestructura barata de construir ni de mantener, por lo que eran habitualmente los estamentos privilegiados los que podían hacer frente a la construcción de los mismos, convirtiéndose en un elemento de poder y producción de rentas de gran importancia. Ello conllevará que sus propietarios litiguen permanentemente por recibir un volumen de agua suficiente como para permitir su correcto funcionamiento el mayor tiempo posible, intentando sustraer dicha agua a las Comunidades de Herederos Regantes de los términos en los que se asienten. No obstante, del mismo modo que se puede observar esa preocupación constante por parte de los propietarios de los molinos por obtener el mayor rendimiento de sus infraestructuras, también se pueden encontrar casos en los que es el propio Concejo el que toma decisiones al respecto, estipulando turnos y organizando la prioridad en el uso del agua en determinadas ocasiones. Serán momentos generalmente puntuales y relacionados con episodios de sequía y desabastecimiento de la ciudad que conllevarán un cambio en la administración habitual de las prioridades de uso, otorgando dicha prioridad a los molinos para poder abastecer a la ciudad de harina. Del mismo modo, surgirán pleitos entre diversos molinos por el mismo motivo que, en ocasiones, derivarán en litigios de largo recorrido temporal y que no se resolverán hasta la intervención directa del Concejo o la compra de una de las infraestructuras por parte del propietario de la otra.

 

Sandra SUÁREZ GARCÍA (Universidad de Granada)

La Vega de Granada: traspasos de propiedad y poder tras la conquista castellana

El espacio que rodea la actual ciudad de Granada, su Vega, fue un entorno fértil y productivo durante los últimos siglos medievales, gracias a una agricultura irrigada en combinación con el cultivo de árboles frutales y cereales. Fue asimismo, el último emplazamiento al que debieron llegar los conquistadores castellanos antes de tomar la capital del Reino Nazarí, sufriendo la consecuente despoblación, tala y quema de parte del espacio productivo. Firmadas las capitulaciones de 1491, los habitantes de la Vega pudieron mantener sus bienes, a diferencia de otros territorios conquistados antes de esta fecha. No obstante, muchos fueron los que decidieron pasar allende y vender sus propiedades, lo que dará lugar a una veloz acumulación en manos de una nobleza castellana que comienza a comprar de forma especulativa y a precios precarios, ante la urgencia de la venta. Por otro lado, los Reyes Católicos se configuran como prácticos herederos de la monarquía nazarí, al establecer una cláusula de compra preferente sobre todos los bienes ligados a la familia real granadina. Hablamos de gran cantidad de huertas, jardines e incluso almunias, que conjugan la explotación agropecuaria con edificaciones semi-palaciegas de un eminente carácter de recreo y solaz. Así, también los reyes castellanos, a través de mercedes otorgadas a los participantes en la conquista, fomentaron la creación de grandes propiedades, sin obviar el incumplimiento casi sistemático de dicha cláusula, produciéndose muchas transacciones ilegítimas entre la familia de Boabdil y la aristocracia cristiana. En último lugar, y no menos importante, encontramos a parte de la aristocracia nazarí que decide mantener su posición eminente, tanto a nivel social como económico, convirtiéndose al cristianismo e integrándose rápidamente en la élite castellana, principalmente a través de estrategias matrimoniales y alianzas políticas. Esta élite convertida se olvidará prestamente de su pasado musulmán, formando incluso parte de las fuerzas de represión de la población mudéjar (y posteriormente morisca) que participará de forma intermitente en revueltas violentas contra el poder castellano hasta el momento de su expulsión, a finales del siglo XVI. Nuestro objetivo principal es conocer la importancia de las transacciones que se dieron en los primeros años tras la conquista castellana, que terminaron calando en la sociedad y perpetuándose a través de instituciones castellanas como el mayorazgo y la creación de nuevos señoríos. Asimismo, nos interesa conocer los cambios a nivel socio-político (generación de señoríos, persistencia de la élite nazarí, etc.) y agrario (cambios en los cultivos, relaciones de producción, aprovechamiento del regadío, etc.) entre el período nazarí y el nuevo Reino de Granada. Se trata de un estudio en curso realizado a través de la tesis doctoral de la solicitante, titulada La propiedad aristocrática en el Reino de Granada (siglos XIII-XVI), que a su vez forma parte del proyecto I+D “La propiedad aristocrática en la Granada nazarí y su traspaso a la sociedad castellana después de la conquista (siglos XIII-XVI)” [HAR2015-64605-C2-2-P], dirigido por la Dr. Carmen Trillo San José (Universidad de Granada).

 

Miguel GARCÍA-FERNÁNDEZ (USC – CRPIH)

Las tenentes. Mujeres, territorio y poder en la Galicia medieval

El objetivo de la presente comunicación es aproximarse al estudio de las tenencias gallegas de la Plena Edad Media desde la historia de las mujeres y del género ¿Son las tenencias una realidad histórica fundamentalmente androcéntrica? ¿Lo fueron o lo parece debido a una distorsión historiográfica? Para tratar de responder a estas cuestiones se hace necesario interrogarse por quiénes ejercieron como tenentes y qué implicaciones tenía ello en el seno de la sociedad medieval. Tras una breve aproximación bibliográfica sobre el tema dentro de la producción historiográfica relativa a los reinos cristianos ibéricos, se rastreará la presencia de mujeres tenentes en la documentación medieval gallega. Para ello se abordará el estudio de las principales colecciones documentales, insistiendo en las posibilidades que para ello ofrecen bases de datos como el CODOLGA (Corpus Documentale Latinum Gallaecia), el TMILG (Tesouro Medieval Informatizado da Lingua Galega) y el GMH (Gallaeciae Monumenta Historica). Sin embargo, se ampliará el registro con otros documentos aún en curso de incorporación a dichas bases de datos. Tras establecer el registro cuantitativo, se abordará el estudio cualitativo de algunos ejemplos de esas mujeres que, figurando como tenentes en la documentación monástica, ejercieron el poder sobre determinados territorios del Noroeste peninsular en nombre del rey. ¿Qué tienen en común todas estas mujeres? A dicha pregunta se tratará de dar respuesta apostando por una interpretación articulada en torno a la proximidad de esas mujeres respecto a los monarcas y al destacado papel que tuvieron las viudas aristocráticas en las redes sociales, económicas y, sobre todo, de poder en la Edad Media. Finalmente, se ofrecerán algunas reflexiones sobre la reiterada asociación entre las mujeres y el ejercicio del poder sobre territorios concretos a lo largo de la Edad Media, siendo la tenencia simplemente una forma más entre otras –desde el señorío jurisccional al señorío territorial–, pero de especial significación en lo que se refiere al ejercicio del poder público.

 

Almudena BOUZÓN CUSTODIO – Luis Manuel IBÁÑEZ BELTRÁN (USC)

Los templarios se asientan en Lemos: la bailía de Canabal

Desde los tiempos de Raimundo de Borgoña fue una práctica cada vez más habitual la enajenación al realengo de espacios en los que el tenente del comisso respectivo cedía en favor de un tercero, normalmente una institución eclesiástica, sus atribuciones. Estos cotos jurisdiccionales aparecerán en la Tierra de Lemos, tenencia bien atestiguada del sur lucense y cuna del poderoso condado homónimo, desde muy pronto. Sin embargo, es en 1244 cuando encontramos al frente de uno de esos cotos a una institución singular y a veces olvidada: la Orden del Temple. No en vano, en este territorio los templarios tenían la Bailía de Canabal, la cual administraba un pequeño patrimonio de diversa consideración. Tras la desaparición de la institución religioso- militar sus bienes acabaron en manos del nuevo señor de la zona, el Conde de Lemos.